Il Diario dell’Orto è un libro d’artista scritto durante la prima metà della residenza d’artista all’Orto Botanico di Palermo (clicca qui) che porterà alla mostra Anthurium, Parla mio fiore (clicca qui), residenza che ha visto l’artista trasferirsi per un anno all’interno dell’Orto botanico, vivendone quotidianamente la vita pratica e metafisica, di giorno e di notte in un luogo di una bellezza straordinaria. Un documento unico nel suo genere dove troviamo l’intero processo del lavoro, le considerazione sui materiali, sul loro significato (non solo formale ma autobiografico), il permanere nei giorni abitando a vari livelli la casetta-studio dentro l’Orto botanico fino a trasformarla, proprio grazie al processo delle opere realizzate: il letto sommerso dalle lenzuola, pagine simbolo di una scrittura non avvenuta (clicca qui), o la grande sindone fatta di alghe, l’erbario di 490 pezzi che è il suo riflesso in una chiesetta rurale (clicca qui). Accompagnata da Heidegger, dall’acqua, dalle foglie, dalle alghe, da un ‘idea di naufragio fino a quella di emersione, dal profumo del calicanto fino al caffè preso la mattina da sola col ficus, dalle riflessioni sul volto e sul vuoto, troviamo il succo di una ricerca artistica che fa dell’abitare il suo centro e il senso dell’uso di materiali, rielaborati attorno a nuclei di lavoro che vanno dalla scrittura di un libro non scritto fino all’immagine imperdibile di un volto di cui anche noi siamo la somiglianza. Sempre di più si comprende la frase con cui si apre il diario: “il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo” perché alla fine fare linguaggio è davvero la costruzione di un abitare continuo di cui questo diario ne è la testimonianza.
La Dimora Inesausta è un libro d’artista che ha due luoghi di riferimento e due distruzioni: la casa dell’infanzia dell’artista distrutta col terremoto dell’Irpina in cui Tiziana Cera Rosco non entrò mai più e il Cretto di Burri, ossia la grande lapide a cielo aperto sulla distruzione delle case e della città di Gibellina con il terremoto del Belice. Prende il titolo da una frase di Heidegger che guida il lavoro dell’artista sull’idea di dimora: “il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo”. I due terremoti si parlano all’interno del destino dell’artista che considera il terremoto una linea rossa parallela alla linea della vita all’interno del palmo della sua mano, visitando il Cretto scrive: “Autoritratto dal persempre” spiegandoci che “quando vivi la perdita in questa linea del destino, hai una linea diversa sul palmo della tua mano. La perdita ti porta in un persempre non in un maipiu. Persempre abiteremo le case inesistenti, persempre temeremo crolli che non finiscono di immobilizzarci nel loro mutismo, persempre saremo i sopravvissuti di un mondo che doppia quello che viviamo. Con una casa invisibile dimoro anche presso il crollo invisibile di altri. Chi busserà alla porta di questa casa senza porta? Chi si siederà ad una sedia senza tavolo? C’è una crepa che slega la vita è la riassembla per come può, per come costruisce, per il linguaggio che sviluppa con la vita delle cose che non smettono di esistere. In questo quaderno c’è la prima volta che sono andata al cretto, io da piccola, la casa che non abiteremo mai più e tutte quelle connessioni sulla dimora che il linguaggio richiama come suo centro vitale, spaziale e metafisico.” Da qui proprio il titolo Dimora Inesausta come a dire che il linguaggio anche ai margini dell’accettabile non si stanca mai di farci da dimora sull’impossibile. All’interno del quaderno si ritrovano tracce del frost Artico: la banchisa. Questo perché Tiziana Cera Rosco durante il lavoro a questo libro porta avanti un progetto che riguarda il dialogo tra La Tenda Rossa e il paesaggio artico, un evento che riguarda la perdita e sopravvivenza e che eticamente ed esteticamente permette all’artista il confronto con il Cretto e il dialogo tra l’impermanenza naturale e l’eternità dell’arte. “A volte si appartiene ad alcune opere più che ad un amore” La Dimora Inesausta fa parte del progetto Visioni Oblique. Libri d’artista, libri oggetto, fototesti per il Belice, progetto ideato e curato da Cristina Costanzo. La Dimora Inesausta è stata acquisita dal Museo delle Trame Mediterranee di Gibellina nel 2022.
Durante il lavoro su Persefone (clicca qui) che, come tema centrale, aveva l’emersione della temporalità del desiderio attraverso la tenuta del tempo biologico, la tintura del melograno ha dominato la scena del colore e del significato. Il colore del melograno così vicino al sangue, così carnale e così esangue nello stesso tempo, è stato usato con diverse tecniche, tra cui quella della battitura su lenzuolo per la realizzazione di un’opera imponente in cui veniva rappresentata su lenzuolo una vulva organica dal nome che richiama il libro mistico per eccellenza “Fiore della non conoscenza”. Tiziana Cera Rosco, tenendosi al simbolo del tempo biologico femminile, ha affrontato così la ciclicità mensile legata alla conta delle stagioni che Persefone fa, perché da questa conta, da questo ciclo, dipendono la sua riemersione nel mondo dei vivi e il suo rientro in quello dell’oltretomba in cui lei è l’unica dotata di sangue, ossia di tempo terreste legato alla generazione e alla mortalità. Tiziana Cera Rosco in questo libro riprende l’inizio del mito della dea, ossia quando lei, proprio seguendo un fiore (“stavo solo seguendo un fiore” dice) viene rapita da Ade, un dio invisibile che ha lo stesso nome del luogo che domina. In Sicilia c’è un posto in cui viene localizzato questo rapimento. Ed è così che l’artista si reca proprio nel posto in cui la dea è scomparsa, il lago di Pergusa. La riemersione di Persefone è legata ad un desiderio vitale come reazione all’asfissia del mondo di sotto, e così Tiziana Cera Rosco proprio ritornando in quel posto, lo fa in maniera provocatoria, ossia lasciando rispirare una delle vulve dedicate alla dea. Lo stesso gesto verrà poi riproposto dentro l’Orto botanico di Palermo, durante la residenza (clicca qui), gesto che con più di 30 scatti rappresenta una topografia del posto tramite emersione. L’artista immagina infatti che nessuno sa dove apparire il desiderio che farà comparire Persefone tra i vivi, che può succedere in qualunque posto in qualunque istante. In questo libro d’artista viene messa in luce tutta la matrice autobiografia del lavoro dedicato alla coppia Persefone e Ade, la radice dell’Erbario notturno (l’Anthurium) che è stato esposto al padiglione Tineo dell’Orto botanico di Palermo, e che da il sottotitolo al catalogo dedicato (clicca qui)
Il Tempario della nostalgia (che da il nome poi ad una serie di lavori legati al tempo biologico femminile) è un libro concepito come una forma di calendario rudimentale, naturale con lo scopo di creare un ritmo, di tenere traccia di un tempo interno che si accorda a quello biologico. Non è solo uno scadenzario dei giorni, ma un ritmario del tempo interno, un ritmario appunto artigianale e personale. Se i lavori precedenti, tanto carnali quanto questo, che affrontavano lo stesso argomento della temporalità e degli affioramenti e dei ritorni ( vedi questo e quello ecc clicca qui) avevano un carattere più legato alla materialità del mito di Persefone e alla sua ciclicità di emersione e riassorbimento, questo libro, a iniziare dall’immagine dominante, ossia una mano dal cui palmo un petalo di rosa sanguina come fosse una Stigmata, ci porta in un’altra dimensione: nonostante il tema della carnalità dell’organico sia presente che mai, visto che le tinte del melograno cedono il posto a qualcosa di più rievocativo del ciclo mestruale, la dimensione di appartenenza dell’immaginario dell’artista riconvoca quello da cui lei sempre è mossa, un cultura cristologica che possiamo rintracciare in molti dei suoi lavori, dalle performance fino alle installazioni. Tiziana Cera Rosco staccandosi dal mito, ritorna con questo passaggio che spinge nel desiderio del corpo, al sangue e dal sangue di novo al rapporto con il corpo eccellente, quello di Cristo. La vulva rappresentata infatti ci conduce a tutt’altro scenario, quello della Vulva Christi a cui Tiziana Cera Rosco dedica grande parte del suo lavoro (clicca qui) Il tempario della nostalgia che nasce come un tempo sentimentale del desiderio, si trasforma così nella dedizione alla ferita fondamentale: quella del costato che, verticalizzata, richiama la mandorla mistica, di cui tutto il tema della Vulva Christi incarna.
Ho iniziato questa serie di autoritratti ( termine che amo poco, come quasi tutte le cose che incasellano un lavoro mentre avviene) nella solitudine di questa casa. Una casa nuova, grandissima e bellissima, regale, ma piena di difficolta. Una casa che si direbbe abbia una Tosse dentro le mura. Ci sono stati allagamenti, perdite di energia elettrica, e i mesi della pandemia senza caldaia, acqua fredda. Una casa che richiede un rapporto, una relazione a cui non ero preparata. Dico questo perché i luoghi hanno sempre determinato il mio lavoro. Ho iniziato nell’angolo buio di una casa a fotografare con una web cal, poi in sotterranei che chiamavo studio, poi nel bosco dove sono cresciuta in Abruzzo, chiese sconsacrate, case nobiliari dismesse e lucenti, luoghi che hanno determinato la strada del mio percorso. Posso dire che il luogo per me è una persona con cui abito uno spazio, non è solo lo spazio in cui mi muovo. Ma dopo gli inizi con la fotografia questa è la prima volta che mi ritrovo ancora in una casa. L’idea di labirinto ha sempre condotto i miei passi. La casa di Asterione è un racconto di Borges, con una versione del Minotauro che mi distrugge ad ogni frase, ho chiamato Asterione delle mostre, dei monologhi per teatro, lo studio che avevo:insomma posso dire che quel racconto di Borges illumina di volta in volta vicoli che sembrano ciechi e invece ci conducono a nuovi modi di vedere. Io faccio parte di quelle persone che nella solitudine sentono tutto ossia il punto di isolamento corrisponde ad una ascultazione profonda. E cosi mi sono ritrovata al centro di una casa che era un’isola isolata in cui isolarsi ( ho una malattia autoimmune e quindi per me erano vietati completamente i contatti con l’esterno e infatti non sono mai uscita di casa). Il peso delle morti mi sconvolgeva, sentivo l’epidemia infiltrarsi nei corpi. Diciamo che ad un certo punto, io che sono stata sempre censiva e muscolare anche nel mio modo di lavorare, soprattutto con la fotografia, mi sono arresa. Mi spiego: ho sempre scattato come se l’immagine fosse l’apice di un gesto estremo. Non ho mai preparato il set, mai, perché il mio modo di formare l’immagine è di vederla comparire dove sono, non di prepararla o di realizzare fotograficamente qualcosa che già vedo prima. Mai usato telecomandi, o la presenza di altre persone che spezzerebbe quel ciclo di tensione di cui ho bisogna: premere il pulsante della macchina fotografica e correre dove sto per comparire. Quando il momento della presenza coincide con tutto, quella è l’immagine. O almeno cosi è sempre stata. Ma stavolta è adata diversamente. Stavolta l’immagine non è lo scatto ma un frame. Ho sempre lavorato col nudo. Non potrei preparare il mio corpo, aggiustarlo, modificarlo o agghindarlo perché l’espressione di qualcosa riesca meglio. Il corpo è il corpo. Un dato, quello che è. E’ il gesto estremo della vita è la parola alla fine del mondo. Io che ho sempre lavorato anche in scultura col il viso e con il petto come dovesse sempre aprirsi una voliera, stavolta mi sono trovata in una gabbia, la mia, quella toracica. I muri avevano una tosse, e io vivevo nella mia cassa toracica mentre il virus sfilava l’aria dai polmoni. Ma la schiena non è solo una schiena, come ci insegna Kafka nella colonia penale. È anche un canovaccio in cui vengono scritte le cose da cui siamo determinati e che non possiamo leggere ( riferimento: nella Colonia Penale di Kafka dove c’è una macchina che scrive sulla schiena del condannato ignaro del motivo per cui è accusato, la ragione della sua colpa ma la scrittura che viene incisa sulla schiena viene anche arabescata cosi è impossibile leggere o repertare la sentenza). Ho cosi costruito all’interno di questa casa una sorta di mappa, di topografia del corpo nudo che compare negli ambienti con il suo abbandono. Le immagini vengini filmate per un quarto d’ora. Poi viene preso un frame di quel tempo. Non più l’attimo dicevo, ma la meditazione del movimento nella sua immobilita. Questo rende anche la formulazione dell’immagine slegata dal tempo breve che invece si distende in un tempo lungo e meditativo ( Asterione dice Ho Anche Meditato Sulla Casa). Quindi corpo nudo arreso, tempo lungo, non scatto ma un presente disteso in cui il corpo si arrende o medita l’immagine. Solo la schiena come l’isolamento delle proprietà del corpo. Io che mi occupo anche di scrittura, in questo periodo ho rinunciato a leggere e scrivere perché avevo bisogno di riformulare anche la geografia di un linguaggio. Essere isolati per una persona che come me è abituata ad essere sola non la mancanza di contatto con gli altri, l’affetto. E’ il non avere testimoni. E in arte i testimoni sono tutto. Ma più importante di ogni cosa è ristabilire un contatto segreto con un tempo interno che non è detto debba esprimere tutto quello che ha da dire nel nostro presente.