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Quando ho iniziato a lavorare col gesso, molto tardi, ho saputo da subito che stavo lavorando ad un reperto.

Non dico il primo corpo realizzato, o il secondo e neanche il terzo. Mentre imparavo a maneggiare le dinamiche e le termodinamiche del materiale, maneggiavo i corpi (che altro non erano che la disponibilità del mio a rendersi forma, visto che i negativi dei calchi li improntavo direttamente da lui), sapevo che stavo lavorando a un dissotterramento, o a un processo di dissotterramento. Mi ripetevo questa parola costantemente. Era un suono di movimento; eppure, aveva a che fare con qualcosa di immobile, e più che la parola in sé il dissotterrare divenne un esercizio di concentrazione. Ai tempi, cercai vicino al mio studio di allora un campo dove andare a interrare le sculture quando erano ancora molto fresche e odoravano di umido. Le ripulivo dopo giorni che erano state nel terreno e farle emergere dalla terra era scoprire che contenevano un dato temporale. Un dato temporale immobile. Nello studio in cui lavoro ora ho un buco nel cemento del pavimento che il tempo ha scavato e in cui qualche sparuta ma inarrendibile felce è cresciuta non vista nel terreno. E così interramento e dissotterramento li agisco dentro il mio habitat e questo ha aperto un tempo di grande energia. E dai corpi intesi come forme di ventre, cosce, seno, visi, mi sono ritrovata a lavorare con la forma delle ossa, a costruirmele. Vivo in quella che chiamo ancora Età dell’osso.

Il luogo in cui sono cresciuta, in Abruzzo, era pieno di tombe sannite attorno al lago e che scavando emergevano dalla terra con le loro ossa. La prima volta che ne vidi una, il fremito non fu quello dello spavento, ma il fremito che viene dal tempo, dall’aver disseppellito una verità e di forse anche mancata. Come quando ti consegnano una sillaba e tu sai che da qualche parte una frase la sta aspettando, una frase che tu devi pronunciare dalla tua memoria ma non ricordi se non un alone di senso in cui sei immerso. Così funziona anche nell’intelligenza dentro la materia dell’opera a cui lavoro, Scavi trovi il reperto. Il frammento non ti basta ma per molto tempo ti aggiri tra i frammenti.

Non devi credere troppo al frammento, ma devi credergli completamente, non devi chiedere tutto, ma devi stare di fronte con tutta la tua domanda.

Il frammento deve rimanere aperto. Così l’opera. Non può chiudersi. È sempre parziale, inquieta, sempre in debito con l’opera che viene dopo. Ogni scultura è impossibile da finire. Da finire una volta per tutte. Non si sigilla. Sposta il suo sigillo. È come un enigma che si muove nelle radici del linguaggio. Senti l’ombra d’oro ma se vuoi metterti sotto la sua luce il buio raddoppia. E il buio è una forma di terreno. Ogni volta che estraggo un’opera dalla terra io so che più in là da qualche parte ci sarà un corpo salvo a cui è destinata a congiungersi, lo so. Come so che da qualche parte c’è una parola da cui è decifrabile.

Così possiamo dire che quei frammenti sono indizi di linguaggio e il linguaggio è una tensione di accoppiamento come se qualcosa potesse completarsi solo in maniera invisibile (e qui la contraddizione con la materia) e indicibile (e qui la contraddizione con la parola).

Non c’è contemporaneità senza questa tensione. E siccome il tempo svela l’essere non c’è contemporaneità il senza tempo. Essere contemporanei al tempo è una cosa molto seria. Non è essere contemporanei al mercato che insiste su un linguaggio senza evento e che ha la sua funzione, quella di rendere efficace il posto del lavoro nel mondo.

Ma l’efficacia non è l’ambizione dell’opera.

L’opera come ambizione ha quella di existere, levarsi dalla terra, del manifestarsi dell’essere e come il linguaggio poetico l’opera vuole Evenire, ossia vuole essere evento, all’interno dell’essere.

È questa per me l’ambizione alla grandezza. Che ha anche la sua distruttività perché quel tempo che vuole manifestarsi, quell’essere che vuole evenire si incarnano quando rendi disponibile la tua carne. L’arte è spolpante ma noi abbiamo anche bisogno di essere mangiati perché tutto questo corpo senza quella incarnazione non ci serve.

Quando si parla dell’essere soglia da parte di un artista, si parla di questo grado di recezione non comune, per cui anche le forze e il peso della sua umanità sono spostate verso i centri di irradiazione delle tensioni vitali dove si formano le figure, le immagini che girano sotterranee in cerca di luce e che vogliono e devono essere aperte altrimenti il mondo morirebbe di un respiro tenuto sottovuoto.

La potenza disturbante dell’essere che sta sulla soglia. E soglia è una parola così sottile che mi da vertigine. Ma quando lavori tra te e la memoria del mondo dove la soglia ti chiede di lavorare e scomparire c’è un prodotto residuale. Un prodotto residuale che non puoi ridurre.

Esiste nel giardino del linguaggio una parola che amo molto ed è Luz. In una tradizione religiosa il Luz non è l’anima ma quella parte di materia in te, piccolissima, irriducibile, dalla quale, qualunque sia la tua morte, tu verrai ricostruito. Chissà se è vero che ci salveremo tutti in virtù delle nostre opere e quanto questo monito sia squilibrante per un artista

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